Il libro VI dell’Eneide
narra la discesa agli inferi di Enea. Egli era andato a Cuma per consultare
l’oracolo di Apollo presieduto dalla Sibilla.
La catabasi di Enea non è
stata l’unica, il viaggio nel mondo dei morti ha sempre affascinato l'uomo:
Gilgamesh, Orfeo, Ulisse, Enea, Dante, ma ognuno con motivazioni diverse.
Se Gilgamesh, semidio,
voleva conoscere il segreto dell’ immortalità, Orfeo, più umano, discese agli
inferi invano per riportare in vita l’amata sposa.
La più famosa è quella di Ulisse,
narrata nel libro XI dell’Odissea, che però non è una vera "catabasi",
bensì un’evocazione, nekia, delle ombre dei morti. Ulisse scende nell’Ade per
apprendere quale destino lo aspetta: vuol sapere quando terminerà il suo
viaggio e quando giungerà finalmente a Itaca.
Per questo Enea ed Ulisse sono
paradigma dell’eroe greco: bello e valoroso “kalos kai agatos”.
Ulisse, come anche Enea,
incontra le ombre degli affetti più cari: la madre Anticlea, la cui ombra
invano tenta di abbracciare; i compagni con cui aveva condiviso anni di guerra,
Agamennone, Aiace e Achille, che gli confessa che avrebbe preferito essere un
bovaro, ma vivo, piuttosto che una vana ombra nell’Ade. L’Odissea sconfessa
l’ideale eroico di Achille perché esso non dona salvezza ed eternità. Grazie a questi incontri Ulisse ha la
possibilità di fare il punto della situazione, di guardare al suo passato con
serenità e con altrettanta serenità guardare al futuro, consapevole della
dolorosa realtà della morte.
I motivi che spingono
Ulisse negli inferi si addicono alla personalità dell'eroe: curioso e desideroso
di conoscere il proprio futuro.
La discesa agli inferi di
Enea ricorda moltissimo quella omerica. Enea vuole entrare nel regno di Dite
per rivedere e riabbracciare il padre Anchise. L’eroe troiano incontra Didone,
che lo guarda muta accanto all’ombra di Sicheo e incontra anche Anchise che lo
guida attraversa le anime dei morti e gli mostra le anime di coloro che ancora
devono nascere: Enea ha ora dinanzi a sé una schiera infinita di uomini e donne
che rappresentano il futuro dell’eroe e non il suo passato. Proprio qui sta la
differenza tra Ulisse e Enea: il primo si era mosso spinto dal desiderio di
conoscere il destino personale ed aveva incontrato le anime di quanti già aveva
conosciuto, il secondo invece cerca risposte che riguardino non solo il cammino
futuro, ma le ragioni stesse del suo peregrinare. Vuol sapere cosa ci sarà dopo
Troia, vuol sapere perché ha dovuto abbandonare Didone, perché ha perso tanti
compagni e persino il suo amato padre. Enea si trova dinanzi non solo il suo
destino, ma a quello di tutta la sua stirpe.
Ben tre volte sia Ulisse
che Enea tentano di abbracciare i diletti genitori, ma la consistenza del loro
corpo è svanita con la morte.
Il destino cambierà a seconda
delle scelte di Ulisse, un uomo che può cambiare il corso degli eventi con la
volontà. Enea verrà a conoscenza del suo
futuro per meglio adempire alla missione che gli è stata affidata, ad Ulisse
verrà rivelato solo per un suo bisogno. Da Enea dipende la nascita di Roma. Da
Ulisse dipende solo la sua sopravvivenza. Enea Figlio di Anchise e della dea
Afrodite, sposo di Creusa e padre Ascanio, è il “fondatore": a lui è
affidata la missione di riportare in vita lo splendore di Troia, fondando un
nuovo impero.
Enea è l'eroe giusto e valoroso,
che mosso da nobili ideali dedica la sua vita a qualcosa di più grande, per cui
verrà ricordato nei secoli a venire. Ulisse e ancor più Orfeo, dedicarono la
loro vita al raggiungimento della felicità per se stessi e per i propri cari.
Enea invece per adempiere al suo destino lascerà anche la donna che lo amava, per
portare a termine quel grandioso disegno che era la nascita di Roma. Orfeo e
Ulisse lottano contro una sorte sventurata, mentre Enea si lascia dolcemente
guidare attraverso un cammino predestinato, senza cercare di opporsi. Quindi
seguendo il solco della provvidenza Enea dovrà rifondare una nuova Troia, una
“Roma aeterna”, nella quale tutti i Troiani si rincarneranno.
Anche Manzoni nel suo
romanzo “I Promessi sposi” inserisce al centro simbolico dell’opera la catabasi dell’Innominato. Egli
convertito dalla pietà per Lucia e dalle parole di Federigo Borromeo, ricompie
quello che Orfeo fece con Euridice: ma questa volta trionfando, il peccatore
scende a recuperare l’anima della donna, Lucia, prigioniera nel suo castello,
la sede del male, nella valle brulla dolorosa, per riportarla indietro, nel
mondo dei vivi, dei cristiani, presso il Cardinale Borromeo. Accompagnato non
dalla Sibilla, né da un Virgilio dantesco, ma con Don Abbondio affronta
l’umiliazione di una conversione pubblica.
Quindi la catabasi è il
processo che consente ad un uomo o ad una donna di cambiare: l’Innominato è
l’unico personaggio negativo che cambia, che cresce, che si converte. Pertanto
nella prospettiva cristiana della provvidenza non è negativo, al contrario è il
personaggio più importante. Egli rifiuta di fare la fine del “tizzone
dell’inferno”, Don Rodrigo, una fine inevitabile, infera e pestilenziale. Lucia
simbolicamente è l’anima salvata dell’Innominato, come Euridice lo era per
Orfeo.
Per questo anche Lucia è
così importante: si distingue dai personaggi che non cambiano come Don Rodrigo,
perché ella non cambia, ma come l’anima del cristiano pellegrino si riconsegna
a Dio intonsa e per mezzo delle mani del più grande dei peccatori, l’Innominato
che si salva. Questo è il miracolo della provvidenza.
Giulio